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Non voglio vivere imbrigliata nella fibrosi cistica

La storia di Claudia

Nel dna di Claudia c’è scritto che respirare le costerà fatica, eppure la bambina che faceva scuotere la testa ai medici, oggi è una donna che non smette di spronarli perché facciano di meglio, di più, perché la scienza vinca la battaglia contro la fibrosi cistica,  finalmente.  

Era il 1975. Claudia non cresceva, aveva molto appetito, ma scaricava continuamente quello che mangiava. In più c’erano un mal di pancia, una tosse e un raffreddore che sembravano non passarle mai. La scienza balbettava. Quando arrivò al pronto soccorso in condizioni critiche, i medici fecero di no con la testa come per chi non c’è più niente da fare.

Claudia sopravvisse e i genitori, dopo essersi persi nel labirinto degli indirizzi che portano al dottore più bravo, si ritrovarono tra le braccia «una bambina da tenere sotto una campana di vetro, con problemi respiratori, che quando mangiava avrebbe dovuto prendere delle pastiglie». Questo a detta dei medici che diagnosticarono, in fine, la fibrosi cistica, senza però farne il nome alla famiglia, darle un volto né indicare dove andare o a chi rivolgersi.

Un’altra girandola di consulti – ai tempi la malattia era poco conosciuta e anche gli esperti procedevano tastoni – e Claudia ebbe la fortuna di essere ricoverata nel Centro di cura di Verona, dove «iniziarono a togliere un po’ di paure per metterne delle altre». Era febbraio. C’era la neve e la sua mamma ricorda ancora il professor Mastella, il primario, che le mandava fuori. Al freddo? A prendere aria in giardino. Era un’impostazione diversa da tutte quelle incontrate fin lì, ma l’abbracciò.

Ora quella bambina ha 40 anni, è sposata, lavora ed è un concentrato di energia: ha gambe forti da ballerina, uno sguardo blu elettrico e un sorriso contagioso. «Io, ad oggi, grossi problemi non ne ho. Quindi, qualche volta, mi permetto di saltare la fisioterapia. Lo so, non si fa, ma bisogna anche vivere! Almeno mi dirò: “finché ho potuto mi sono divertita” e finché potrò farò le cose anche nella normalità degli altri» dice Claudia. Poi spiega: «i tuoi tempi non sono quelli degli altri se fai tutte le cose come devono essere fatte». Intende soprattutto le tre sedute di fisioterapia giornaliere della durata di un’ora ciascuna. Davvero non si riesce a immaginare tutto quell’entusiasmo intrappolato nella necessità di una cura così regolare e rigorosa. Eppure non le si può sottrarre. Claudia prosegue: «sono anche incosciente, ma non voglio vivere imbrigliata nella fibrosi cistica». E così, appena può, parte. Per Creta, per esempio, fidandosi delle sensazioni del momento.

 

Le sue grandi passioni: il ballo, il canto. Soprattutto il canto. Racconta: «qui c’è il mare. Ci si trovava in spiaggia, intorno al falò, con le chitarre. Ero sempre la voce sopra gli altri. Cantavo Mina. Cantavo anche ai ricoveri e mi dicevano di fare poco casino. Ero la prima voce del coro della parrocchia, finché la mia voce non è rientrata nel coro. Ricordo che in terza superiore andai con la scuola a Parigi, in treno. Ci ritrovavamo nelle cuccette a cantare. Una delle insegnanti aveva a sua volta la passione per il canto. Aveva fatto il conservatorio. Tornammo e poco dopo fu Natale. Era molto affezionata alla mia classe e a ognuno lasciò un pensierino con un biglietto, in inglese, visto che era la sua materia. Mi definì “voce di usignolo”».

Avrà smesso il canto da 12 anni, non danzerà quasi più perché, come ripete tante volte: «faccio fatica, non ho il fiato», ma Claudia continua a ballare la vita con passi sempre nuovi. È una professionista sul lavoro, assessore comunale all’associazionismo e uno dei volti della Fondazione per la Ricerca sulla Fibrosi Cistica. «Io lo faccio perché non c’è nessun altro che lo fa, perché lo ritengo doveroso e mi piace. Dai un senso di speranza a chi ha un bimbo piccolo. E chi, più di te che la vivi, può far capire alla gente cos’è questa malattia, che oggi si diventa adulti, ma a che prezzo e per quanto?». Eppure sono molte le critiche che le vengono mosse ogni volta che si concede ai mezzi stampa. «Ascolta chi è seduto tutto il giorno sul divano con lo stroller [ossigenoterapia]», le scrivono. A vederla non si crede porti una grave malattia. Lo dice pure lei: «credo sia difficile associare la mia immagine a dei grossi problemi». Non significa non esistano però.

È indubbio sia difficile mediare tra l’esperienza di chi sta già molto male e si sente mancare il respiro e di quanti invece stanno ancora bene e non vogliono pensare che l’aria verrà meno. Pochissimi si espongono. Dovremmo guardare più al coraggio di Claudia che avere cura di alimentare le polemiche. Anche in questo, infatti, è un’eccezione: diversamente dai più, ha deciso di raccontarsi, di provare ad aiutarci a capire perché urga sostenere la ricerca. Il grazie va in primis alla sua famiglia, che non ha mai smesso di ripeterle che «ognuno nasce fatto a modo suo». Non doveva nascondersi da niente e da nessuno, perché «la malattia non è una colpa. Non c’è niente di cui vergognarsi e non è neanche contagiosa». Anche i suoi genitori erano ignari di essere dei portatori sani e quindi di poterle trasmettere il gene alterato. «Insomma, nessuno ha voluto che ce l’avessi né ha fatto qualcosa di sbagliato. È solo qualcosa di scritto nei geni», conclude Claudia.

«Noi ci sentiamo come dei latticini», spiega. «Se li tieni fuori dal frigo scadono in fretta. Se li tieni in frigo durano di più, però hanno comunque una scadenza. Voi non sapete quale età media di sopravvivenza avete». «Un’ottantina d’anni», azzardo. «La nostra data di scadenza è meno della metà della vostra», osserva. Provo a controbattere: «eppure, la possibilità che finisca sotto una pressa da carta a 25 anni e non faccia ritorno a casa c’è». Claudia ci ha già pensato: «la fibrosi cistica non ti toglie nulla. Non preclude le esperienze di vita normali e non ti rende immune dalle altre cose della vita. Quindi io ho le tue stesse possibilità di finire sotto una pressa da carta. Più una».

Claudia, mentre parla, è un mare sotto il sole meridiano: scintilla, s’increspa di luce e la rifrange tutta intorno. Riflette: «dovremmo riuscire a dare la nostra positività senza tralasciare la drammaticità della malattia». Continua: «avevo 12-13 anni e mi capitò di leggere su un opuscolo: “Oggi, finalmente, i nostri ragazzi arrivano all’età adolescenziale”. Non è che me ne mancassero tanti. Fece male». Quel “finalmente” le mise paura. Si diceva: «ma come, “finalmente”!». «È stato allora che ho cominciato a prendere coscienza di cosa fosse la fibrosi cistica – ricorda. «Però è stato breve il passo dalla paura a capire che non era così per tutti, che sì, esisteva la fibrosi cistica, ma con forme di gravità completamente diverse».

Claudia crede nella ricerca: «ho deciso di fare da cavia per una sperimentazione. La scienza si sta muovendo. È di questo che dobbiamo avere fiducia». Poi, quando pensa ai suoi «compagni di viaggio» (chiama così i pazienti incontrati in reparto durante i ricoveri; molti non ci sono più, altri ci sono ancora), gli occhi le si fanno di un blu profondo, come quando una nuvola passa sul mare dentro un cielo accecante. «Sono consapevole che non è facile accettare la malattia. Noi più vecchi ne abbiamo passate tante. Non è facile stare in una stanza di ospedale in cui quello della camera a fianco è appena morto per la stessa cosa che hai tu; sapere che puoi peggiorare velocemente. Hai sempre lo specchio di chi incontri. Gli altri diventano il tuo specchio». Anche il neonato di 1,9 kilogrammi in sala d’aspetto. Claudia ce l’ha dietro gli occhi, mentre si rannicchia un po’ di più sul divano, si stringe le braccia intorno e solleva lo sguardo bagnato al soffitto.

La malinconia non dura. Passa, come tutte le nuvole e a Claudia bastano poche parole per spiegarmi come ha deciso di sposarsi: «avevo tutto il diritto di essere felice e lui di scegliere». Penso a Susanna Ricciuti, la sua professoressa d’inglese: cosa direbbe se sapesse che il suo usignolo non canta più, non come allora, da tempo? Ripenso alle parole di Claudia: «ci sono le persone che ascoltano e quelle che guardano e basta». A ognuno la libertà di scegliere che tipo di persona essere. Io la mia monetina la getto dalla parte della ricerca.

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