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Salvatore

Mi chiamo Salvatore, sono di Napoli, ho 18 anni e frequento l’ultimo anno di liceo scientifico. All’apparenza sembro un ragazzo normale, nessuno potrebbe sospettare che dietro la mia condizione di salute ottimale si nasconda una terapia assidua.

A differenza di molte persone nate con la fibrosi cistica i miei polmoni sono liberi, stanno bene anche grazie alle cure meticolose di mia mamma. Purtroppo non posso dire la stessa cosa per il mio fegato, che a quanto pare viene colpito solo nel 5% dei casi. Sono dunque un’eccezione. Era un venerdì dopo scuola di due anni fa, quando mi chiamarono dall’ospedale per essere ricoverato d’urgenza: dagli esami risultava che dei parametri fossero pericolosamente bassi, al punto che già si parlava di trapianto. Il terrore di quelle ore lo ricordo come fosse adesso. Un errore scongiurò il rischio di trapianto, almeno per un po’.

È stato guardando la tv che mi è venuta voglia di raccontare anche la mia storia. Passavano la pubblicità della Fondazione in Rai. Vedere Edoardo, il protagonista dello spot, che ha circa la mia età, mi fece molto piacere, perché la quasi totalità della popolazione non conosce la fibrosi cistica e quando la nomini le persone dicono: “COSA?”, anche qualche medico, purtroppo. È indispensabile che si sappia quanto è subdola; fare capire che sostenendo la ricerca è possibile arrivare a sconfiggerla, anzi, è l’unico modo per farlo. E poi, è da tenere in conto che possa nascere un figlio malato, se un italiano su 25 è portatore sano di fibrosi cistica e una coppia di portatori, a ogni gravidanza, ha il 25% di probabilità di generare un figlio malato.

Ho iniziato a chiedere perché dovevo prendere le pillole in prima elementare. Fino a 12-13 anni sono stato riservato riguardo al fatto di essere malato. Evitavo di rispondere alle domande. Paradossalmente, ora che tutti lo sanno, di domande ne ricevo di meno. Una volta giocavo a calcio, poi, per via del fegato, ho iniziato a fare palestra e basta. La terapia insulinica, quella respiratoria, le visite, le attenzioni continue per mille cose impegnano e distraggono tempo. La ricerca sta facendoci il regalo più prezioso: il tempo, appunto. Una trasfusione di ore, di giorni, di anni, di tempo di qualità, di sangue ossigenato, di vita insomma. Donare il cinque per mille alla ricerca significa alimentare il ricircolo di idee e di scoperte che portano un cambiamento, in positivo, nelle nostre vite. Non solo in quelle delle persone malate.

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