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1 Marzo 2005

Test genetico per fibrosi cistica in gravidanza, in assenza di casi in famiglia

Autore: Antonella
Domanda

Ho 38 anni e sono al quarto mese di gravidanza. Ho preso appuntamento per fare l’amniocentesi per la sindrome di Down presso un centro privato. Assieme alla sindrome di Down mi hanno proposto di fare anche altre analisi, fra cui quella per la fibrosi cistica. Io non ho casi in famiglia con questa malattia, però al momento ho pensato di dire di sì, anche se non ho capito bene di che cosa si tratti e che cosa mi potranno dire questo test e gli altri. Ho fatto bene?

 

Risposta

Le donne in gravidanza che si rivolgono a strutture o centri privati per eseguire una diagnosi prenatale attraverso villocentesi (prelievo di villo coriale, cioè un frammento di placenta, in genere in decima settimana di gravidanza) o amniocentesi (prelievo di liquido amniotico, in genere in diciassettesima-diciottesima settimana di gravidanza), oggi possono sentirsi offrire, oltre all’analisi dei cromosomi del feto (indagine chiamata analisi del cariotipo o mappa cromosomica), “altri” test per la diagnosi di malattie che hanno una base genetica.

Tra queste “offerte” c’è anche quella del test per fibrosi cistica. Queste utenti per lo più non hanno casi in famiglia né di fibrosi cistica né di altre malattie genetiche di cui sentono per la prima volta notizia (ad esempio un particolare tipo di ritardo mentale, la sordità ereditaria, o altro ancora). Hanno solo un rischio aumentato, dovuto all’età (la soglia è stata fissata a 35 anni), di una gravidanza con anomalie cromosomiche, fra cui la sindrome di Down è la più frequente. Quindi, in questi casi, l’indagine per cui esiste in termini medici una indicazione specifica è solo l’analisi dei cromosomi. Gli altri test sono offerti non perché il mondo della medicina suggerisca di fare così, ma perchè essi esistono in commercio e per il laboratorio che li esegue rappresentano una buona fonte di guadagno. Quindi, spesso poco prima di fare il prelievo, la donna prende atto, in genere attraverso un opuscolo informativo, dell’esistenza di alcune indicazioni patologiche, tra cui la fibrosi cistica, per le quali si potrebbe, se desiderato, procedere ad un test genetico sul materiale fetale che verrà prelevato.

Le circostanze in cui si realizza questa offerta sono di partenza svantaggiose per la coppia: essa deve prendere visione in breve tempo del tipo di analisi e del quadro clinico corrispondente, sente la pressione data dai tempi immediati del prelievo, comunque vive una certa ansia legata alla procedura ostetrica imminente, e per di più deve anche valutare gli aspetti economici richiesti dall’ampliamento dell’indagine inizialmente richiesta.

Se i test dicono che “va tutto bene”, la donna o la coppia percepisce un grosso vantaggio dal fatto di averli eseguiti. Suppone di aver abbattuto significativamente la probabilità di avere prole affetta da patologie genetiche, si sente giustificata nella spesa sostenuta, rinforza il modello presso altri potenziali utenti. In realtà, considerando un rischio riproduttivo generico, che è di circa il 3% ed è comune a tutte le coppie della popolazione generale, il fatto di aver avuto esito di normalità da due-tre test genetici, riduce in modo appena percettibile tale rischio.

Se per caso succede che successive indagini prenatali (ad esempio l’ecografia che viene fatta alla fine del quinto mese e che è mirata in particolare alla ricerca di malformazioni fetali) rivelino difetti congeniti, l’effetto sulla donna/coppia è più drammatico che mai, perché la capacità di adattamento ad un evento del genere è stata resa minima dalla rassicurazione precedentemente avuta.

Per quanto riguarda in particolare il test genetico per fibrosi cistica, la grande maggioranza delle donne/coppie è poco informata che, dati i limiti dell’analisi di mutazioni del gene CFTR, quando venga applicata in assenza di casi di malattia in famiglia, si stima che il test possa riconoscere la presenza di fibrosi cistica (cioè identificare la presenza di due mutazioni del gene CFTR) in poco più della metà dei casi veramente affetti (Castellani C., Lalatta F. et al. “Modelli di analisi genetica per fibrosi cistica” sigu.univr.it, 2004).

E inoltre non è informata che può succedere che il test riconosca la presenza nel feto di una sola mutazione del gene CFTR: in questo caso non si potrà dire se questo corrisponda ad una condizione di portatore sano del gene (= presenza effettiva di una sola mutazione, quindi non malattia) o di malato (= presenza effettiva di due mutazioni, ma il test ne “vede” una sola).

Si potrà sapere solo approfondendo l’analisi: questo richiede tecniche sofisticate e soprattutto tempi più lunghi, mentre invece con il progredire della gravidanza, in particolare per chi ha fatto l’amniocentesi, il tempo per poter fare delle scelte stringe. Le conseguenze per la donna/coppia possono essere pesanti, con un grave carico d’ansia, con rammarico per aver avviato il test, e talora addirittura scelta di interrompere la gravidanza a causa dell’inatteso aumento del rischio di malattia. Più spesso inizia la ricerca di rassicurazioni attraverso molteplici consulenze e la gravidanza prosegue in un clima di apprensione.

Quindi, quando la gravidanza è già avviata, se non ci sono casi in famiglia, prima di accettare l’offerta del test per fibrosi cistica (come pure di altri test genetici) servono:

informazioni dettagliate, tempo e calma per riflettere, possibilità di scegliere se accettare o rifiutare il test, possibilità di prevedere che cosa si deciderà di fare in caso di risultato patologico o addirittura incerto.

In assenza di queste condizioni il test è una operazione vantaggiosa solo per chi lo mette in commercio.

 

G.Borgo


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