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11 Dicembre 2007

Come dare un volto alla fibrosi cistica

Autore: Antonella
Domanda

Buonasera sono la mamma di Vanessa, una bambina di 6 anni affetta da FC. E’ molto dura ma cerco sempre di fare il possibile. Quello di cui vorrei parlare però ora è se sia possibile sapere su quali basi è stata fatta la scelta di una campagna pubblicitaria, per quanto riguarda l’immagine, dove si vuole dare di questa malattia un’impressione di serenità (io vi vedo solo tanta salute).Al contrario invece i bimbi con fibrosi cistica non sono affatto contenti e sorridenti nei momenti in cui vi è l’aggravarsi della malattia. Per quanto un genitore possa rendere ogni momento parte della quotidianità, e rendere giocosa e gioiosa la stanza ospedaliera dove il bambino viene isolato da altri, ovviamente per giuste cause, dove deve fare cure antibiotiche, cortisoniche e, quando serve, anche respirare l’ossigeno. Non vorrei sembrare troppo drastica ma, secondo il mio parere, non viene pubblicizzata la realtà: questa è una malattia che pochi conoscono ed è complessa da spiegare in quanto malattia invisibile. Serve una pubblicità più di impatto: tutti quelli, che leggono di primo acchito il volantino, in base alla mia esperienza personale, si limitano a racchiudere il tutto in bronchite e non è affatto cosi. Qui non stiamo parlando di una semplice bronchite, bisogna far capire di cosa realmente stiamo parlando e come trascorre la corta vita di queste persone. Mi farebbe molto piacere ricevere il vostro parere. Nell’attesa vi porgo i miei più cordiali saluti. Grazie comunque per tutto quello che fate

 

Risposta

Far conoscere la fibrosi cistica non è semplice : la malattia non si vede, nel senso che non conferisce delle caratteristiche esteriori per cui i malati siano riconoscibili (come per esempio succede ai malati di distrofia muscolare che si muovono sulla carrozzella, oppure ai malati Down, che hanno la caratteristica forma degli occhi). Forse è una malattia che si sente, perchè sull’autobus o in un cinema o in aula la tosse di chi ha la fibrosi cistica si può sentire: ma non è una tosse caratteristica, potrebbe essere la tosse di una bronchite di lunga data. Quindi come riconoscerla, come presentarla e darle un volto che faccia presa nell’immaginario collettivo?

E’ stata fatta la scelta di darle un volto di bambino che sogna, e che sogna di guarire. Quello che si voleva trasmettere era l’idea del sogno della guarigione, sogno fatto da un bambino. Bisogna dire che i bambini, in termini pubblicitari, colpiscono sempre molto, perchè trasmettono anche messaggi impliciti: sono innocenti, e il dolore li colpisce nonostante siano così inermi. Nel nostro caso, sogna di guarire un bambino che è nato malato, senza nessuna colpa, e che è malato di una malattia che non guarisce e che ogni giorno deve essere curata, ogni giorno come se fosse la prima volta, oggi come ieri e domani come oggi, di qui il sogno di liberarsi di questo macigno e guarire, essere come gli altri.

Ma la scelta dell’immagine del bambino è discutibile per una serie di ragioni, tra cui quella citata da questa mamma (il bambino non trasmette un’idea di sofferenza), oppure quella che oggi quasi il 50% dei malati FC italiani ha 18 anni o più e fa fatica a riconoscersi nel volto e nelle parole di un bambino. Questi adulti malati hanno però voglia di fare “outing” e raccontare le loro sofferenze? O sono più interessati a sottolineare gli aspetti normali della loro vita ? E’interessante ricordare come più di una ricerca che mirava ad indagare la qualità della vita così come soggettivamente percepita dai malati FC (adolescenti) e dai loro genitori, indicava che ai malati la loro vita sembrava più bella che ai genitori. Suggeriamo di leggere il commento a suo tempo fatto ad una ricerca in particolare, perchè ci sembra offra spunti interessanti di riflessione (1). Consultati brevemente sul come comunicare la malattia, alcuni malati adulti ci hanno detto: dovete parlare di più del fatto che questa è una malattia che fa morire. Fa morire a trent’anni, nel pieno della vita, dopo che ci si è curati una vita per non morire a trent’anni. In effetti quello che ci sembra sia l’elemento che fa la differenza nella comunicazione sulla FC è il ricorrere a o l’evitare alcune parole chiave: dolore, sofferenza, cronicità, imprevedibilità dell’andamento della malattia, difficoltà respiratoria, insufficienza respiratoria, ossigenoterapia , angoscia del futuro nonostante le cure quotidiane, morte.

Quale sia il giusto equilibrio, il mixing più appropriato di parole e immagini nella comunicazione FC italiana entro certi limiti è ancora da capire. La Fondazione FFC ha finora seguito canoni piuttosto tradizionali, ispirati a quanto fatto in altri paesi e da altre organizzazioni scientifiche che si occupano di FC. Due cose sono certe :

1) Per colpire l’opinione pubblica dovremmo usare molto parole e immagini che finora non abbiamo usato. Ma come possiamo insistere sul concetto di malattia dolorosa e mortale se nello stesso tempo vogliamo trasmettere ai malati e ai loro genitori un messaggio di speranza, speranza che non è irrazionale, ma fondata su evidenze scientifiche ?

2) Il ruolo che i malati e i genitori dovrebbero assumere nel campo delle scelte della comunicazione FC è importante; forse andrebbe formalizzato creando una sorta di organismo di consultazione (come succede in altri paesi per altre iniziative, ad esempio nella stesura di linee guida su aspetti assistenziali ). Si è parlato di recente sulla stampa, a proposito di un certo laboratorio, del ruolo dei malati FC nella decisione e gestione delle linee di ricerca FC. Questo ruolo, così come descritto nei messaggi pubblicitari lanciati, ci sembra francamente improponibile, mentre la partecipazione dei malati nella scelta delle linee di comunicazione ci sembra molto auspicabile.

1) Progressi di ricerca: Qualità della vita: diversa valutazione di genitori e figli adolescenti con FC, Paola Catastini e Graziella Borgo
2) Britto MT et all “Differences betweeen adolescents’ and parents ‘reports of health -related quality of life in cystic fibrosis” Pediatric Pneumology 2004;37:165-171

 

G. Borgo


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