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Combattere per sopravvivere

La storia di Emanuela

Emanuela ha 27 anni, è nata a Busto Arsizio (VA) ed è figlia unica. La mamma è insegnante e il papà rappresentante. L’una pianista e violinista, l’altro chitarrista, separati da quando aveva sei anni. Ha un ottimo rapporto con entrambi: ognuno si è preso cura di lei contribuendo a forgiarle un carattere combattivo, tenace e volitivo, che nulla si nasconde e tutto affronta con determinazione nella maggiore serenità possibile.

Quando sei stata diagnosticata?

«A 11 mesi. La diagnosi prenatale è andata persa. La mamma racconta che dormivo solo seduta, mai sdraiata: non respiravo, tanto ero piena di muco. Quando andavo all’asilo mi faceva le battiture e dovevo tossire. Inoltre, soffiavo con una cannuccia in una bottiglia piena d’acqua in cui c’erano delle palline colorate che dovevo muovere facendo le bolle. Era la PEP mask dei tempi. Di notte si usava il nebulizzatore, che vaporizzava il sale con l’acqua fisiologica: avevo la camera da letto sempre ricoperta da uno strato di sale. Mamma non faceva che pulire».

Riesci a focalizzare il momento in cui ti ha raggiunta la consapevolezza della malattia?

«Non realmente. I miei erano stati molto chiari: fin da bambina non mi hanno mai nascosto la verità. Mi hanno detto che per fare determinate cose avrei faticato più degli altri, perché respiravo meno, e che la fatica doveva essermi da stimolo, non da deterrente, per riuscirci. Non dovevo mollare».

La fibrosi cistica ti ha mai fatto paura?

«No, da quando sono nata l’affronto con la consapevolezza del percorso di una malattia degenerativa. La cosa, ovviamente, mi porta a prendere decisioni diverse da quelle per cui opterei se non ce l’avessi».

Hai subito episodi di esclusione tra i tuoi coetanei?

«Fin dalle elementari mi prendevano in giro per l’evidenza che non ero come loro. Non ho mai legato molto con i miei compagni di classe. In compenso nei weekend ero sempre in montagna con i miei veri amici, Giulia in primis; con loro stavo (e sto tuttora) bene. Non frequento chi mi discrimina o chi pensa di potermi dire cosa fare. Oggi ho i miei orari, i miei amici e il mio stile di vita e anche da sola non sto male».

Come nasce la tua passione per lo sport?

«Appena ho iniziato a camminare sono stata attratta dall’attività fisica, forse anche per il fatto che vivevo in montagna – una cosa che mi ha sempre aiutata a stare bene. La mia prima passione è stata la montagna, grazie a mio padre che ogni weekend mi ci portava a camminare. Con lui ho anche imparato ad apprezzare altro: sci da fondo e su pista, alpinismo, nuoto, arrampicata, ciclismo, pattinaggio a rotelle e sul ghiaccio. Successivamente ho praticato ginnastica artistica, equitazione, pallamano e danza moderna. La svolta è però avvenuta con la scoperta degli sport da combattimento: MMA (mixed martial arts) e BJJ (brasilian jiu jitzu), praticato presso lo Stabile Team, dove sono stata iniziata al TACFIT (tactical fitness). Quest’ultimo ormai va in accoppiata quotidiana con la terapia, regalandomi risultati evidenti».

Studi o lavori?

«Attualmente lavoro part-time, situazione che mi permette di allenarmi e curarmi senza affaticarmi eccessivamente. Ho fatto il liceo scientifico a indirizzo linguistico, poi ho seguito un corso per disegnatrice AutoCAD e 3DSMax allo IED (Istituto Europeo di Design). Terminato uno stage ho iniziato a lavorare come designer, ma tre anni fa mi sono licenziata perché, con tanti ricoveri (ne facevo circa sette l’anno), il lavoro era complicato da gestire».

Cos’è per te combattere?

«Per me combattere è sinonimo di curarmi, perché la malattia, che lo voglia o meno, mi mette dei limiti. Combatto per cercare di superarli o almeno di contrastarli. La vita è una lotta per tutti, in particolar modo per me, che ogni giorno affronto un avversario invisibile: fare le terapie mi fa mancare un nemico concreto; sul tatami mi batto contro un avversario in carne ed ossa e, ancora un po’, contro i miei limiti. In questo percorso, iniziato ormai da cinque anni, mi ha guidata Filippo, il mio Maestro di MMA e BJJ. Tre anni fa i miei livelli stavano calando drasticamente, al punto che un piano di scale era diventato un ostacolo, così, per sette mesi dopo essermi licenziata, mi sono allenata facendo TACFIT e lotta due volte al giorno quattro volte la settimana: sono passata dal 40 al 65% di FEV1 e non ho più avuto bisogno di ricoveri così frequenti – purtroppo l’influenza la prendo ancora anch’io. Questo è uno dei periodi più felici della mia vita: sono entrata a far parte della Legione Tacfit come Field Instructor, ho trovato nuovi amici e un ambiente stimolante che mi ha sempre incoraggiata a fare del mio meglio. L’head coach Alberto Gallazzi, oltre ad accogliermi e motivarmi, mi ha insegnato che con il TACFIT posso allenarmi da sola tutte le mattine, conoscere meglio il mio corpo e i miei limiti. Questa preparazione atletica mi ha migliorato la qualità della vita».

Vivi un senso di ingiustizia? 

«Non particolarmente, non mi sono mai nemmeno posta il problema. Ho avuto indubbiamente dei periodi difficili: da adolescente ero spesso arrabbiata, adesso non lo sono più. Il mio periodo più complicato è stato tra i 16 e i 17 anni. Un problema alle ginocchia mi costrinse a interrompere lo sport per un anno. Ebbi un tracollo. Ne derivò un momento di odio e rifiuto della mia condizione, dei miei polmoni, di quella che ero. La reazione istintiva immediata fu il rifiuto delle cure. Da 100 scesi al 40% di FEV1. Non riuscivo più a fare tutto quello che facevo prima, ero sempre stanca. Dall’accettazione mentale della malattia dovetti passare alla sua accettazione fisica. Trascorsi quegli anni, compresi finalmente che rifiutare le cure non mi avrebbe portato lontano. Ritornai a dirmi che per ottenere determinate cose bisogna fare fatica. Da quando ho iniziato a lavorare part-time posso allenarmi ogni mattina amplificando l’effetto della terapia. Ho riscoperto il piacere di godermi la vita, frequentare i miei amici, leggere, ascoltare la musica, disegnare e viaggiare».

Come ti organizzi per i lunghi viaggi?

«Devo usare la testa, programmando, ad esempio un ricovero prima di partire. Sono stata in Canada, Giappone, USA, Tailandia, Egitto e in mezza Europa. Il mio primo viaggio è stato con Giulia, la mia migliore amica, per tre settimane in UK a studiare. Avevamo 15 anni. Ogni volta che parto, nel bagaglio a mano c’è sempre spazio per le medicine quotidiane e per gli antibiotici di scorta; in certe parti del mondo, il Giappone per esempio, la FC non esiste, quindi devo essere pronta a curarmi senza per forza tornare a casa».

Quanto pesa la malattia nelle relazioni sentimentali?

«Non tutte le mie storie sono finite a causa della FC. Ho sempre sentito il bisogno di una persona solida al mio fianco, perché affrontare quello che può essere una vita con me non è semplice. Io sono consapevole di quello che mi aspetta. Quella malata tra i due sono io, dopo tutto. Sono io che mi devo curare e mi serve molta energia per farlo, quindi non ne voglio sprecare. La FC m’impone delle priorità: l’allenamento, per esempio, lo devo fare per sopravvivere, è un dovere oltre che un piacere. Quando ho trovato una persona che per mantenere una relazione mi costringeva a modificare il mio modo di vivere, l’ho allontanata. Abbiamo tutti un istinto di sopravvivenza, il mio è forse più accentuato della media, ma è quello che mi permette di stare bene e non lo voglio limitare».

Progetti a breve e lungo termine

«A livello sportivo ho tutte le intenzioni di continuare con la lotta e con il TACFIT, attività che farà sempre parte della mia vita. A dicembre avrò un nuovo esame per mantenere l’abilitazione da Field Instructor. Il livello richiesto è aumentato e mi sto già allenando per superare il test al meglio. Il mio progetto, che sta diventando una realtà, è quello di appropriarmi della mia vita e lo farò nella mia nuova casa. Era da quando avevo 21/22 anni che cercavo una sistemazione mia. Sono sempre stata una persona molto indipendente, ma il progetto doveva essere adeguato sia alla situazione del momento, nella quale sto bene, come pure a un futuro in cui non starò bene e avrò bisogno dell’ossigeno. La malattia mi porta via già abbastanza tempo; non ho intenzione di farmene portare via altro dall’auto compatimento. La casa sarà presto pronta e ho tutte le intenzioni di godermela!».

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