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La seconda vita di Marco

Il risveglio, il nuovo respiro, l'altruismo di chi gli ha donato un futuro.

Non ha sbagliato una curva, nonostante il rombo cupo della neve e il vento gelido a sospingerlo. Non si è voltato, non è caduto e la valanga è precipitata altrove. Marco Menegùs, a meno di due mesi dal trapianto bipolmonare, racconta la sua esperienza raffrontando la sua vita prima e dopo l’intervento.

Come prendesti la proposta della messa in lista per il trapianto?

«Il 10 gennaio 2011, quando il dottor Pradal me ne parlò, era già da oltre due mesi che vivevo una situazione di difficoltà. Doveva pensare per me al trapianto perché era la soluzione unica e necessaria che mi si prospettava e perché andasse al meglio era necessario arrivarci stando bene – ovviamente all’interno di un quadro di patologia che si aggravava. In un mese e mezzo sono passato dal non fare ossigeno a esserne dipendente e a finire in lista di trapianto. Non avevo mai pensato alla rapidità con cui ci sarei arrivato, ma c’era quella possibilità e quella andava presa».

Hai avuto paura?

«Non credo di avere mai avuto paura, né di avere pensato in modo ossessivo alla chiamata. Ero sicuro sarebbe arrivata. Non ho mai nemmeno pensato di non arrivare al trapianto. Mi svegliavo la mattina e dopo le terapie ero già sfinito, pago della giornata, pronto per tornare a letto, invece andavo al lavoro. Non mi sono arreso all’evidenza. Nel frattempo ho sciato, arrampicato, cacciato, camminato e sono andato anche in bici».

Quanto la vita-attaccata-all’ossigeno ti ha condizionato?

«Quando il professor Mastella mi disse: “dovrai trovarti altri cimenti”, ho tolto almeno mille metri di quota ai miei desideri. Ci ho rimuginato pochi giorni e poi mi sono detto: “dove sta scritto che perché ho bisogno dell’ossigeno non posso camminare? Basta provare e vedere come va”. Sono partito con lo stroller e ho camminato cinque kilometri. Presto sono andato in montagna: prima per una camminata di un’ora e mezza, poi sul Col Visentin, poi ai Cadini di Misurina e alla fine in Marmolada. La quota più alta raggiunta in vita mia l’ho conquistata con l’ossigeno».

Dove sei arrivato?  

«Alla cresta di Punta Rocca, 3300 metri».

Con chi?

Da solo.

E dove ti doveva portare l’ascesa?

«Da me stesso. Ho obbligato i miei limiti ad adattarsi ai miei orizzonti e alla fine ho avuto ragione io».

Il tuo medico era preoccupato?

«Il dottor Pradal dicendomi: “affidati alle tue sensazioni”, mi fece un grandissimo regalo».

Un giorno hai detto che “respirare male fa marcire i pensieri”. Ora pensi meglio?

«Ho vissuto un lungo inverno, come un letargo, in cui mi sono concentrato su me stesso per non disperdere energia. Molto di quello che sentivo era filtrato dal mio stare male fisico. Dentro di me ero altro da quello che appariva all’esterno, ma non avevo risorse per mostrarlo».

Quanto un paziente ha una percezione reale della propria condizione?

«Prima non mi rendevo conto di quanta fatica facessi. Valutavo il mio stare male basandomi sulle cose che riuscivo a fare, dunque la mia percezione era che la malattia fosse ancora clemente nei miei confronti e che ci fossero ancora ampi margini di peggioramento, ma il senso della realtà della malattia a un certo punto si perde. Non so se ho impedito io a lei di impedirmi o se si sia fatta impedire».

Hai parlato della conoscenza “come arma, medicina e carezza consolatoria” per affrontare la tua situazione che si comprometteva. Quanto bisogna essere coraggiosi per scegliere la consapevolezza?

Capire mi ha sempre aiutato ad affrontare le cose. Informarmi è una mia necessità di sempre. D’altra parte indipendenza e libertà si ottengono attraverso la conoscenza. È come arrampicare: lo si può fare alla cieca o sapendo la via. Io avevo bisogno di sapere dove stavo andando per poter scegliere e sono certo che tutto sia stato così lieve e naturale perché mi sono sforzato di sapere e capire. Che le cose siano poi andate esattamente come mi avevano detto è stato anche un favore della cabala».

Eri in vacanza quando hai ricevuto la chiamata. Com’è andata?

«È stato tutto talmente fuori dall’ordinario che l’ho vissuto come una cosa poco legata alla malattia e all’ospedale. Stavo fotografando una collina a Montepulciano quando è iniziato a suonare Fortunate son, la suoneria che avevo scelto per la dottoressa Loy. Ho capito prima di rispondere che si trattava di una chiamata. La foto poi non l’ho fatta».

Quali sensazioni hanno animato il tuo risveglio?

«Dall’addormentamento al risveglio è un istante di buio. Da sveglio se chiudevo le palpebre vedevo cose che non esistevano. Si chiamano stati di alterazione percettiva e sono indotti dalla morfina e dall’anestesia. L’ambiente della rianimazione si confondeva con le cose che avevo visto in Toscana. File di cipressi e pini marittimi viola si fondevano con l’ambiente dell’agriturismo e quello della rianimazione. Colori vivissimi come il verde dei poggi, i rossi delle terre di Siena, il giallo dei fiori del sito etrusco e i toni calmi dell’azzurro e del bianco dell’ospedale animavano una realtà fluida. Una cosa molto buffa».

Riesci a dire com’era il tuo respiro ieri e com’è ora?

«Prima il respiro era un senso di fatica ora è un senso di libertà e pienezza, ma il passaggio non è spiegabile a parole perché è troppo radicale. Mi è stata tolta di dosso la fatica. Ora ascolto il mio respiro e sono in pace con me stesso. Anche il mio corpo lo sento molto diverso. Non ho praticamente più nessun dolore, soprattutto, non ho più la perenne fame d’aria che mentalmente è difficile da contrastare. Mi sono accorto delle limitazioni che avevo quando me le hanno tolte».

Come vivi i tuoi nuovi polmoni?

Non li ho mai pensati come qualcosa di estraneo dal mio corpo o un’addizione. Prima ero io tutto intero con dei polmoni che, per quanto mi appartenessero, erano una parte di me che tendeva alla caducità e mi mutilava. Adesso che paradossalmente ho dentro di me qualcosa che, almeno per un istante, si può pensare essere stata partecipe della morte, mi sento intero e ho solo pensieri di vita e di pienezza.

Cos’hai in progetto?

Progetto di comperare una moto, ricostruirmi fisicamente e fare un passo alla volta. Sono consapevole della complessità del tutto e che il trapianto è la prosecuzione della fibrosi cistica con altri mezzi – parafrasando Carl von Clausewitz. Io, di fatto, resto malato con dei polmoni sani di cui devo essere attentissimo custode. Ho una fiducia razionalissima nei progressi della ricerca scientifica e credo che con gli sviluppi che ci saranno nella medicina, la teorica aspettativa di vita di adesso evolverà con me. Dunque a maggior ragione devo essere attento a gestire le risorse che ho. La mia progettualità è di vivere a lungo.

Ti chiedessero di esprimere tre desideri oggi? 

Un desiderio duplice è che le altre persone in lista di trapianto possano affrontare l’attesa e tutto il resto nello stesso modo in cui è capitato a me e che dalle ricerche sui polmoni espiantati arrivino presto risposte importanti. Sono stato fatto oggetto di un altruismo che non potrò restituire né ringraziando chi mi ha donato gli organi né donando a mia volta i miei. Dal 18 aprile io conto in addizione ogni istante della mia vita. Ma nella vita si conosce per differenza: il pieno contro il vuoto, il bene a confronto del male, la luce prima del buio. Per questo, ogni giorno, non posso dimenticare che altri, dal 18 aprile, vivono in sottrazione, nella privazione di una vita, di un’esistenza, di un uomo. Voglio sperare e augurare loro che sappiano e possano ritrovare ogni giorno, in loro stessi, parte del coraggioso amore e dell’altruismo che gli ha permesso di avere la forza di consentire la donazione degli organi del loro figlio, marito, fratello. Vorrei che la famiglia, e il mondo che ha perduto un uomo e tutto ciò che rappresentava e sognava, sapessero pensare, seppur nel dolore e nell’assenza, alla pienezza e alla vita che hanno saputo dare. Se così fosse, la mia felicità potrebbe essere ancora più profonda. E la mia felicità, coi fiori delle mie montagne, è il modo in cui ogni giorno rendo omaggio ad una tomba che per me sarà sempre senza nome».

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