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12 Ottobre 2004

Fibrosi cistica e gravidanza

Autore: Anonimo
Argomenti: Gravidanza, Riproduzione
Domanda

Quali problemi comporta la gravidanza in una donna con fibrosi cistica?

 

Risposta

In una ricerca americana (The Effect of Pregnancy on Survival in Women with Cystic Fibrosis, Chest 2003,4,1460-1468) le conclusioni sono abbastanza diverse da quanto suggerito dagli ultimi studi. Gli autori hanno attinto a quella preziosa miniera di informazioni che è Il Registro Nazionale Pazienti della CF Foundation americana. E’ un registro che è attivo dal 1966: dal numero complessivo di 8136 donne che avevano più di 12 anni al momento dello studio (2002) sono state escluse quelle che avevano avuto una gravidanza nel primo anno di afferenza al centro FC, quelle che erano state diagnosticate dopo i 45 anni e quelle che avevano solo un anno di osservazione. Ne sono rimaste così circa 7000, fra cui sono state isolate quelle che avevano avuto una gravidanza: 680, equivalenti al 9.6% del totale.

Lo studio si è svolto realizzando una serie di confronti fra le donne che hanno avuto una gravidanza e le altre che non l’hanno avuta.

La gravidanza nelle donne con minor malattia FC.

Per il primo confronto sono state indagate le caratteristiche cliniche delle donne con gravidanza, osservate l’anno prima che questa si verificasse: ogni donna con gravidanza è stata paragonata a 5 altre donne scelte a caso fra quelle in quell’anno viventi e non gravide (complessivamente 680 contro 3327). Una sorta di grande inchiesta trasversale per fotografare la situazione clinica iniziale del primo gruppo rispetto al secondo, indipendentemente dall’età.

Si è visto che il gruppo delle donne con gravidanza era diverso dalle altre perché aveva mediamente migliori indici di funzionalità respiratoria (FEV1 67.5% contro 61.7%), miglior peso (Kg 52.9 contro 46.4) e miglior rapporto peso/altezza, meno complicanze secondarie alla malattia FC. In una parola presentava uno stato di malattia più lieve delle altre, sebbene non vi fosse differenza per due dati clinici importanti: la percentuale di quante avevano infezione infezione da Pseudomonas e di quante avevano insufficienza pancreatica.

Il secondo confronto è stato fatto fra gli stessi due gruppi a distanza di due anni dalla gravidanza: a quell’epoca le donne che l’hanno avuta e le altre non sono apparse diverse per quello che concerne l’evoluzione della malattia: c’è stato un declino della funzionalità respiratoria (-2.2% contro -1.8%) e della situazione nutrizionale (-Kg 1.7 contro -1.1 ),simile in entrambi i gruppi. Quando l’osservazione dei parametri clinici e degli eventi della malattia, fra cui l’evento morte, si è protratta per il massimo arco di tempo possibile (12 anni :1985-1997) si è visto il peggior andamento del secondo gruppo: sono morte il 23.4% delle donne senza gravidanza e il 14.1% delle altre. Se si dispone di un numero elevato di soggetti e di un periodo prolungato di osservazione che può essere interrotto dalla morte, la statistica fornisce la possibilità di tracciare per l’intera popolazione presa in esame una curva detta di “sopravvivenza”: la curva di sopravvivenza elaborata in questo studio stima che dopo 10 anni siano vive il 77% della popolazione di donne che hanno avuto una gravidanza, il 58% di quella delle donne senza gravidanza.

Quando nel gruppo delle donne con gravidanza sono state isolate quelle che stavano peggio (FEV1 minore del 40% e presenza di diabete insulino-dipendente), lo stesso la loro curva di sopravvivenza è apparsa migliore rispetto alle altre senza gravidanza.

Il paragone fra donne con malattia FC di simile entità.

Poiché la migliore sopravvivenza delle donne con gravidanza potrebbe essere spiegata semplicemente come il naturale effetto del miglior quadro clinico iniziale, è stato realizzato un terzo confronto: una donna FC con gravidanza è stata paragonata e seguita nel tempo rispetto a 5 donne senza gravidanza, questa volta scelte non a caso, ma al contrario il più possibile simili alla prima in quanto ad età, funzionalità respiratoria, infezione da Pseudomonas, situazione pancreatica (in totale 455 donne con gravidanza rispetto a 2275 senza).

Pur essendo simili le condizioni iniziali di nuovo la curva di sopravvivenza è apparsa a favore di quelle che hanno avuto una gravidanza, con una stima di sopravvivenza dopo 10 anni del 90% delle prime e dell’ 86% delle seconde. Il risultato si riferisce però al 67% del numero totale delle donne che hanno avuto gravidanza e questo può limitarne la validità.

La statistica dei rischi.

Infine l’ultimo confronto: donne con gravidanza e donne senza sono state raggruppate (“stratificate”) a seconda di tutte le variabili cliniche indagate (età, durata della vita, gravidanza, FEV1, peso, altezza, numero di infezioni respiratorie per anno e così via) e studiate attraverso una particolare analisi statistica (analisi di regressione secondo Cox e modello dei rischi proporzionali). Questa analisi permette di sommare i dati e quantificare la natura e la forza delle relazioni fra le variabili esaminate,a cui viene attribuito un valore di “rischio”, in questo caso ai fini della durata della vita. Si è visto che, a parità di livello di funzionalità respiratoria, c’era una relazione fra la variabile gravidanza e la variabile età delle donne, ma non nel senso di una influenza negativa della gravidanza sulla durata della vita, quanto piuttosto di una relazione fra la gravidanza e un minor rischio di morte. Andando poi ad analizzare il sottogruppo delle donne con gravidanza e condizioni cliniche di particolare serietà, (FEV1 inferiore al 40%, diabete insulinodipendente, infezione da Pseudomonas, insufficienza pancreatica ), anche per queste, sempre secondo questa elaborazione statistica, la gravidanza non risultava rappresentare un rischio collegato ad una minore durata della vita.

LA SINTESI DEI RISULTATI

Le conclusioni fornite da questa ricerca sono importanti: fra tutte le donne con malattia FC del Registro Nazionale Pazienti americano le donne che vanno incontro ad una gravidanza sono risultate essere una “popolazione” con malattia caratterizzata inizialmente da minore gravità clinica.

La gravidanza non è apparsa modificare questo quadro né in tempi brevi (2 anni dalla gravidanza ) né in tempi lunghi (tutti gli anni di vita ); non ha determinato insomma il tanto temuto viraggio da una forma “buona” a una forma grave; e l’attesa di vita è risultata maggiore per queste le donne che hanno avuto una gravidanza rispetto alle altre.

Poiché questo risultato poteva essere spiegato come semplice conseguenza del miglior quadro clinico iniziale,il paragone è stato fatto fra donne con gravidanza e donne senza gravidanza con malattia di simile entità: lo stesso l’attesa di vita è apparsa maggiore nelle donne con gravidanza.

Anche esaminando le donne che hanno avuto una gravidanza pur con un quadro clinico di particolare serietà,come FEV1 minore del 40%,diabete insulino-dipendente, colonizzazione da Pseudomonas, insufficienza pancreatica, la gravidanza non è risultata un evento associato ad una minore durata della vita.

E ADESSO?

C’è una ragionevole evidenza circa il fatto che che la gravidanza non modifichi il decorso della malattia FC, né di una malattia FC di lieve entità né, e questo è il dato nuovo, di una malattia grave. Diciamo “ragionevole” perché siamo di fronte a elaborazioni statistiche che forniscono risultati in termini di altissima probabilità, ma non assoluti. Sono però risultati che acquistano una particolare forza in relazione alla numerosità delle donne incluse nella studio e all’ampiezza e consistenza dei dati clinici raccolti: in genere gli errori statistici sono maggiori se si vogliono trarre conclusioni su piccoli numeri piuttosto che su grandi e su aspetti parziali e non complessivi, come in questo caso, di una patologia.

Le implicazioni di questi risultati sono importanti per le donne FC. In pratica vuol dire che la decisione di fare un figlio viene rimessa nelle loro mani. E’ un argomento in più perché siano loro a decidere, insieme al loro partner. La decisione va affrontata responsabilmente, il che vuol dire che sono necessarie da un lato autonomia e dall’altro consapevolezza.

Essere autonome vuol dire che non c’è un parere medico vincolante su questa decisione, non c’è una figura a cui chiedere “che cosa mi consiglia?” “io farò quello che mi viene suggerito di fare”.

Ma c’è una malattia di cui tener conto: qui entra in gioco il problema della consapevolezza. Ci sono delle difficoltà che impediscono alla donna con malattia FC e possiamo dire in generale agli adulti con questa malattia di essere “consapevoli” della loro malattia. Non siamo nei paesi di cultura anglosassone, Stati Uniti in testa, dove lo stile comunicativo fra medico e paziente è improntato, per una serie di ragioni, non ultime quelle legali, alla necessità da parte del medico di dire la “nuda verità” al paziente e da parte del paziente di sentirsela dire. Lo stile di comunicazione reciproco è improntato ad un processo di “neutralizzazione”: poiché di fondo la FC è ancora oggi una malattia caratterizzata da una quota di incertezza sull’efficacia delle terapie e sull’attesa di vita del singolo malato, medico e malato insieme adottano una sorta di allontanamento dal confronto con tali incertezze e di evitamento di comunicazioni personali e dirette. Questo meccanismo comporta vari effetti, certamente permette fiducia nelle cure e speranza.

Ma vi sono alcuni momenti della vita del malato, e quello in cui si interroga se fare un figlio è uno di questi, in cui il bisogno di conoscere lo stato della sua malattia, e, nei limiti di ciò che è prevedibile sul piano scientifico, la sua evoluzione, la durata del suo futuro, diventa determinante ai fini della scelta. Vorrebbe chiedere, ma non sa come fare, teme le risposte che potrà avere (“ma come sto io veramente?” “che forma di malattia è la mia?” “è possibile sapere quanto vivrò?”).

Il medico, dal canto suo, è sollevato dal non dover rispondere a domande così difficili, specie se poste da malati con cui non potrebbe eluderle. Così quello che dovrebbe essere un momento di chiarezza sui temi scottanti (gli americani lo chiamerebbero una “disclosure”) può diventare un dialogo tra sordi. Soprattutto in passato, quando le ricerche scientifiche supportavano il suo atteggiamento, il medico assumeva un atteggiamento direttivo: la gravidanza è sconsigliata, peggiora la malattia.

Alla base di questo atteggiamento la valutazione che se la donna FC sceglie di avere un figlio, questo è un problema aggiuntivo sulla via del raggiungimento dell’obbiettivo di salute che egli giudica per la donna prioritario (“non le basta vivere, e vivere discretamente, vuole ‘anche’ fare un figlio, in una parola: vuole dimenticarsi della sua malattia!”).

Ma adesso le evidenze scientifiche sono abbastanza cambiate e il medico non può adottarle a difesa delle sue motivazioni. Perciò forse è arrivata l’ora che la donna malata di FC e il medico abbiano un colloquio che si svolga in maniera diversa da entrambe le parti e che rappresenti un reale processo di comunicazione sull’affermazione di fondo fornita da questo studio: un figlio non accorcia la vita della donna, è la malattia FC che può farlo. Un figlio per la donna FC è una speranza, la malattia una realtà, non sono dati in contrasto, bisogna rifletterci e cercare l’integrazione possibile.

 

 

Dr.Graziella Borgo


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