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4 Marzo 2008

Un padre che rifiuta la malattia del figlio

Autore: Ester
Domanda

Il bambino di una mia amica è stato diagnosticato affetto da FC. Ora ha tre mesi: il papà non accetta la situazione, non vuole ascoltare nessuna informazione, non va alle visite…

Che cosa si può dire o fare?

Risposta

La prima cosa da fare è rendersi conto che questo papà è una persona che sta soffrendo molto.

Su questo bambino aveva investito moltissimo ed era sicuro che sarebbe nato il bambino più bello del mondo, o semplicemente che sarebbe stato sano, la fortuna più bella che possa capitare. E’ nato invece malato, malato di una malattia che probabilmente non aveva mai nemmeno sentito nominare. E lo vede ogni giorno crescere diverso dagli altri, anche se la malattia non gli conferisce nessun segno esteriore di diversità. Il fatto che il bambino sia malato per il padre è una ferita profonda alla sua identità psicologica e alla sua integrità biologica (non sono stato capace di fare un figlio sano, è colpa mia, non valgo niente); è un macigno che ostacola qualsiasi sogno o progetto futuro.

Che cosa fare?

Questi, alcuni piccoli suggerimenti, basati sull’esperienza; chi scrive non ha competenze psicologiche; la consulenza di uno psicologo a cui sottoporre il problema e chiedersi come muoversi è preziosa, soprattutto se con il tempo la situazione non evolve.

1) Non avere fretta e voler bene lo stesso a questo papà che sta soffrendo; la situazione può cambiare, ci vuole tempo

2) Non forzare le cose di fronte ai suoi rifiuti e non isolarlo per questo suo atteggiamento

3) Accettare che non si occupi per ora delle cose della malattia del bambino

4) Accettare che si occupi di altre cose, quelle pratiche della vita di famiglia, nelle quali possa impegnarsi e averne un ritorno di utilità per tutti

5) Se si intravede la possibilità, chiedergli di occuparsi degli aspetti di “normalità” del bambino, invece che di quelli di malattia (portarlo a spasso, invece che preparargli l’aerosol)

6) Frequentare persone (Nonni? Altri familiari? Amici? ) capaci di sottolineare gli aspetti di crescita normale del bambino e dimostrare l’integrazione possibile fra le attività normali e le esigenze della malattia.

7) Cercare di capire quali sono gli aspetti della malattia che feriscono o impressionano di più

8) Cercare di capire se qualche persona o qualche messaggio ha creato un dolore o un risentimento particolare: capita a volte, anche senza volerlo, che certe comunicazioni risultino intollerabili e restino come un incubo che cresce progressivamente, anche perchè alimentato dall’ansia e magari fondato su informazioni poco chiare e non complete (chi scrive ricorda genitori che dopo molti anni le hanno detto “Dottoressa, non capivo niente di quello che mi stava dicendo in quel momento (il momento della comunicazione della diagnosi), ma una certa frase non me la sono più dimenticata….”

9) Se presso il centro in cui il bambino è assistito, c’è una persona che più di altre ha un minimo rapporto relazionale con il papà, quella è la persona che può fornirgli informazioni, indipendentemente dal ruolo professionale che svolge (infermiere, fisioterapista, assistente sociale, psicologa). Se è il medico stesso che ritorna sull’argomento della diagnosi, deve ricordare che ci vuole un ambiente adatto, tempo da dedicare, atteggiamento empatico e non burocratico. Certamente la figura dello psicologo, se il problema persiste a lungo e non mostra segni di evoluzione, è la persona da consultare, magari per averne suggerimenti indiretti sul come comportarsi, se il papà non è dell’idea di parlare lui stesso con lo psicologo, come spesso succede.

10) Ricordare che è più frequente di quello che si crede (e interessa i papà italiani come quelli di altre nazioni, si veda l’articolo citato sotto), il fatto che il papà stenti a trovare il suo ruolo, per una serie di ragioni, alcune semplici altre più complesse. Non è una consolazione, ma può aiutare i familiari ad aspettare che il tempo aiuti l’elaborazione della diagnosi della malattia, aiuti a chiudere una fase della vita per aprirne un’altra, dove il bambino, proprio quel bambino e nessun altro, nasce davvero anche per il papà.

Glazner A et all “Daddy day care or daddies don’t care. What is the contribution of fathers in families where a child has CF?” Pediatric Pulmonolgy 2005, Suppl 28, page 365

G. Borgo


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