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33 anni controcorrente per arrivare a invertire la rotta

Adulti ribelli

Conosci un altro modo per fregar la morte? Lo stato WhatsApp di Marco fa una domanda difficile. Marco è un toscano verace con la parlata veloce che schianta e lo sguardo come il mare prima della tempesta. Sediamo al tavolino d’angolo in una veranda anonima di un anonimo bar milanese. A dargli carattere ci pensano le sue parole càustiche. «Chiacchiero anche col bicchiere vòto – dice. Mi piace stare a contatto col pubblico, raccontare le mie storie». Un paio d’anni fa ha aperto un locale suo a Rosignano, in provincia di Livorno, “Da quei Ragazzi”.

«Per otto anni e mezzo sono stato a Firenze. Ho fatto di tutto: il pizzaiolo, il cameriere e poi l’impiegato a tempo indeterminato come categoria protetta. Quattro ore di lavoro al giorno. Ero sempre presente: con la febbre, il vomito, la diarrea, ma quando ho iniziato a non stare più bene, ad avere i medici che mi dicevano: “Marco rallenta” e i sensi di colpa per dovermi curare, ho capito che qualcosa non andava. Non mi posso sentire in colpa perché devo andare in ospedale!, mi dicevo. Credo di non avere fatto più di 40-50 giorni di malattia in anni. C’ero sempre. Sono stato infelice per mesi, il tempo di trovare un’attività da comprare. Ho investito la mia liquidazione e tutti i miei risparmi nel locale. I miei genitori non mi hanno parlato per tre-quattro mesi. Tutt’ora mi rinfacciano la scelta».

Marco è del 1985, ha una sorella di cinque anni più grande e vive per conto suo. Da quando ha la sua attività lavora in media 10-12 ore al giorno. «Il venerdì e il sabato anche 17 – ammette. Essere il titolare, dopo essere stato un dipendente, è dura, ma è la mia passione. Ho fatto anche delle cazzate, poi ho aggiustato il tiro. Sono una persona che non sopporta i paletti. Non mi dare restrizioni. Fino a 27 anni non mi sono curato. Ho fatto una vita di merda. Niente fisioterapia. Nessuno sport. A un certo punto ho toccato il fondo».

Quando Marco è nato, ai genitori di un bambino FC veniva detto che non si sapeva per quanto tempo potesse vivere. «Una cosa del genere o unisce o divide una coppia – riflette Marco. A 13 anni mi hanno messo sul treno e mi hanno detto di andare a fare la visita di controllo all’ospedale di Firenze. Forse si sono sentiti impotenti. Non gliene faccio una colpa. Un modo diverso di reagire. Sono cresciuto da solo senza che nessuno mi facesse domande. Alle 7.30 del mattino partivo e andavo al centro di cura. Fu in quel periodo che capii perché facevo i cicli di antibiotico in vena». Il suo primo ricordo della malattia, però, risale all’infanzia, «quando stavo sul divano, tenendo sulle ginocchia i contenitori che si usano per mettere sotto vuoto gli alimenti. Li riempivo di catarro tossendo», racconta.

Marco ha fuggito le cure finché l’aria non gli è bastata più. «Avevo raggiunto il 27% di FEV1 – ricorda. I medici hanno accennato alla lista di trapianto e una molla mi è scattata: sarà mica il caso ti dia una sveglia? Mi sono detto: voglio morire curandomi. Anzi, non voglio morire! Ho iniziato ad andare a correre. Mi sentivo scoppiare il cuore, ma mi dicevo: se mi scoppia il cuore morirò curandomi. Facevo 70 kilometri in bici tre-quattro volte la settimana, corsa tre volte, pugilato e calcetto due. A volte, nello stesso giorno, mi allenavo con tre sport diversi. Uscivo solo il sabato sera; il venerdì e la domenica prendevo un film e facevo fisioterapia. In due anni sono tornato al 66% di FEV1. Grazie all’attività fisica la mia qualità di vita è migliorata e di molto. Ora sono più le notti in cui non ho la tosse di quelle in cui ce l’ho. Mi avevano detto che più usi i polmoni più si rovinano. Non è vero. Anche l’alimentazione è importante, ma lo sport… Tra l’altro ti ci gasi. Quando vedi le cose migliorare ti applichi. Ti intrippi col cervello. “Stai peggio perché non hai fatto fisioterapia”, ti dicono sempre i dottori, mai che dicano “stai peggio perché non hai fatto sport”. Se ti alleni assiduamente riesci a prendere meno farmaci. Se stai meglio, gli antibiotici funzionano anche di più. Ero arrivato a un punto in cui non facevano più nulla. È un miracolo che sia vivo. Ora sono stabile tra il 50% di FEV1, quando sto male, e il 60%. Credo che nessuno accetti mai fino in fondo di nascere malato. Come si fa a rassegnarsi? Impari a conviverci, ma la domanda che ti martella il cervello è: perché a me? È come vivere con un timer addosso».

Marco si è rivoltato due volte contro la malattia, negandola prima affrontandola poi, ottenendo risultati opposti. «Quando stavo male mi sono ribellato, ma in positivo. È quello che dovrebbero fare tutti: combatterla. Finché non mi hanno parlato di trapianto non avevo mai usato l’ossigeno, a parte nei ricoveri. Quell’immagine mi ha dato fastidio: facendomi sentire impotente, mi ha spinto a cambiare. Faticavo a fare tutto. Ero sempre nervoso, incazzato. Non dormi quando stai male. Ho avuto anche un problema serio con l’alcol. Cosa stai facendo!, mi sono detto. Quella situazione non mi stava più bene. Non avevo voglia de morì, perché, come canta Masini, non si muore nella vita quasi mai al momento giusto. Ma non vorrei farla finita prima di provarci gusto».

Con il riconoscimento della necessità di seguire delle cure e trovando un riscontro positivo sulla propria salute, Marco si avvicina anche alla comunità social che gravita intorno alla fibrosi cistica. «Secondo me sono gruppi sbagliati – commenta. Ti deprimono. Ogni settimana muore qualcuno, “ma racconta anche una cosa positiva”, dico. Scrivi: “oggi sono riuscito a fare questo!”. Nascere con la fibrosi cistica ti mette avanti a tante persone, perché capisci il valore della vita. Non è importante la quantità, ma la qualità del tempo. È questo di cui bisogna parlare. Vivi pensando sempre che ti manchi il tempo per riuscire a fare qualcosa. Io non mi voglio privare di nulla. L’importante è trovare cosa ti faccia stare bene nonostante la malattia. Per stare meglio non ci sono regole. Tutto deve partire da te, la testa è il ponte di controllo».

Dopo ore di conversazione ancora non l’ha svelato. Qual è il modo per ingannare la morte? Marco ride e sembra andare per la sua strada. «Ho fama di poco serio in amore – dice grattandosi il capo. È quello che sono stato in vita mia. Per la prima volta ho rincorso qualcuno. Lei è una persona che mi è riuscita a dare in un anno quello che il resto delle persone non mi aveva dato. Ha abbattuto certe barriere e io per lei ho avuto voglia di sentirmi migliore, per non vederla stare male. Peccato che lei avesse tutti contro». L’amore!, penso, ecco dove mi stava portando. Marco ride ancora. «Niente di filosofico per lo stato WhatsApp – si diverte. È il verso di una canzone. L’Amore conta».

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