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Io sono la malattia e la poesia

La storia di Federico

Eravamo rimasti che mi avrebbe aspettato al capolinea. Quando arrivo non c’è altri ad attendere. «Tu devi essere Federico» dico. Si toglie gli occhiali per stringermi la mano. È esile nelle gambe, ma negli occhi gli brucia il sole. Lo sguardo rotondo e sparluccicante irradia la luce che penetra il buio dello spazio cosmico e tradisce la curiosità propria dei bambini.

Sediamo sulla panchina di un parco giochi di quartiere. Riprendo la conversazione lasciata appesa al filo del telefono: «e così vivi solo». «In realtà non sono andato lontano: i miei genitori abitano sotto di me» puntualizza. L’appartamento in cui si è trasferito, dopo essere rimasto sfitto per un po’, ha trovato il suo legittimo proprietario in Federico, appunto, che con l’aiuto del papà geometra l’ha trasformato. «Non sono uno che accumula. I soldi li impiego. Ho fatto il mutuo per comprare casa e mi sono indebitato a vita. Esattamente fino al 2039». Ci guardiamo e scoppiamo a ridere.

L’appartamento è una scatola di colori, luminosissimo, visto che Federico ha aggiunto all’abbondanza di luce naturale abbondanza di luce artificiale. C’è pure uno star theatre, il teatro delle stelle, che proietta il cielo sul soffitto della sua stanza. La cura del particolare non è che l’esubero materializzato del suo entusiasmo. Dice: «lo venderei per comprarne un altro domani e ricominciare. È creativissimo!».

A lui la fibrosi cistica è stata diagnosticata all’età di cinque anni, ma i suoi primi ricordi vengono dopo: «sono del viaggio in America, quando avevo sei-sette anni, quindi la malattia c’è da sempre, come la poesia. Entrambe sono qualcosa di estremamente naturale e che ci sono senza motivo e senza che nessuno glielo abbia chiesto. Come sarei se non scrivessi, come sarei se fossi sano, non me lo sono mai chiesto, perché non sarei. Questa malattia non è qualcosa che si aggiunge a me. Io sono la malattia e sono la poesia. La malattia genetica è scritta, qualcosa di impresso nel dna. Non potrei immaginarmi senza. Io non dico: “ho la fibrosi cistica”, ma: “sono malato di fibrosi cistica”, perché è una cosa che sei. È una malattia che comporta morigeratezze diverse. Si fa attenzione a cose assurde». Lo guardo interrogativa, quindi precisa: «a tutto il mondo microscopico che ha conseguenze macroscopiche. Ecco il perché di un’igiene particolare su tutto, l’abitudine a lavarsi le mani, a non giocare a pallone per fare la sudata». Mi viene da chiedere che cosa gli abbia tolto la fibrosi cistica. «Io da bambino mi meravigliavo che non fosse così anche per gli altri. Gli strani erano gli altri. Comunque chissà quanti libri avrei letto in vent’anni di fisioterapia per due-tre ore al giorno. Avrei potuto fare palestra, dormire di più. È una cosa che va accettata. Tutto sta nell’accettare i ritmi che la malattia impone. È tempo che sembra perso, ma che in realtà uno investe in salute. Quando ti ricordi che hai la fibrosi cistica? Quando i tuoi amici partono per Mykonos e tu devi rinunciare. Ma si fa».

Se oggi Federico si sente così bene, lo deve anche alla sua famiglia. «Tutto sta nell’avere dei genitori stupendi come li ho avuti io. Ho vissuto per mano la malattia. Sono stati delicati e forti al punto giusto. Altrimenti, sarei arrivato a 23 anni in condizioni peggiori».

L’appartamento è pieno di distrazioni. Federico me l’aveva anticipato citando Oscar Wilde: «non c’è niente di più utile del superfluo». Di certo le 42 escursioni da Ikea nell’arco di un anno e mezzo saltano all’occhio nelle forme più strane. Mi riporta all’attenzione alzandosi dal divano. Torna con una busta. «Vedi questa? Contiene un questionario in cui mi viene addirittura chiesto se in caso di terapia antibiotica endovenosa a domicilio il personale medico dovrebbe essere fornito o meno di uniforme e auto che lo contraddistingua». Lo sto ad ascoltare. «Siamo arrivati a un’attenzione eccessiva verso noi pazienti, che non sempre è proficua. È chiaro che non ci siano abbastanza infermieri. Non voglio lo psicologo! C’è dei problemi grossi nella sanità; già avere un’assistenza è qualcosa da raggiungere. Inoltre, trovo che sia sbagliato vergognarsi, non voler fare sapere di avere dei problemi di salute. Porta a nascondersi. Non solo con i vicini, ma con tutti nella vita: gli amici, le ragazze… Significa non accettarsi. La fibrosi cistica frega perché non si vede che c’è. È invisibile agli occhi e il malato vorrebbe lo fosse in toto, scomparisse davvero. Ma c’è e bisogna che uno te lo dica che ce l’ha». Federico fa anche notare: «fare parti uguali tra parti diseguali non è corretto. Nel momento in cui lo stato è abbastanza evoluto da fare parti diseguali, qualsiasi diritto va preso (naturalmente senza marciarci sui privilegi legislativi). Il vittimismo, invece, il sentirsi in credito nei confronti dei sani e/o della società, sono atteggiamenti sbagliati».

E così si scopre anche il Federico filosofo, lo studente universitario che parallelamente lavora in banca. Perché? «Il mio corso di laurea non è professionalizzante e così ho preferito mettere il problema al centro prima per evitare di scontrarmici poi» dice. Gli domando: «che cosa t’insegna la filosofia?». «Ti apre – risponde. «T’insegna a scomporre i problemi. A me ha dato un senso di distacco nelle cose. Nel senso di non essere mai superficiali nelle analisi». Cito un paio dei suoi versi: «“Se al crepuscolo steso su un prato, | […]  nascondo in me il cielo senza senso”. Che risposte ti sei dato?». «Il valore sta nell’essersele fatte le domande. È bene farle. Non rispondere» replica.

Ritorno alla poesia, ai titoli dei tre libri ai quali ha lavorato: Il rumore del silenzio, Dentro me avanza, L’imperfetto assoluto. «Contengono implicito un richiamo alla malattia?» domando. «No» risponde deciso Federico. Pochi istanti prima aveva sostenuto che senza amore e dolore non si può scrivere poesia, facendomi pensare che se il malato ha percezioni acuite dalla sofferenza e il poeta ha impressioni amplificate dalla sensibilità al punto da sentire come un malato, un paziente-poeta dovesse patire al quadrato. Mi recita Autopsicografia di Pessoa: «Il poeta è un fingitore. | Finge così completamente | che arriva a fingere che è dolore | il dolore che davvero sente». Touché!

Intuisce il mio disorientamento; mi tende una mano e m’insegna la strada: «la poesia mi aiuta perché sai dove finisce. È un frammento. Che senso ha porsi un limite e scrivere inquadrandosi in uno schema fisso? Se non ci fossero state le terze rime della Commedia Dante avrebbe scritto meno. La rima ti porta a toccare cose che non pensavi di toccare. Metti una parola accanto a un’altra che non avevi immaginato e le cose che avevi da scrivere crescono. La metrica aumenta esponenzialmente il flusso di coscienza».

Forse è questo il trucco per avere il sopravvento sul tempo: vivere come si scrive un sonetto, concentrando la vita in 14 versi, ripetendo il gioco all’infinito, sempre levando il superfluo, finché non resta più niente da dire e si spande il silenzio.

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