Ho studiato per tre anni lingue orientali a Enna. Amo viaggiare, conoscere gente e culture, fare foto, ascoltare musica, leggere. Non si può stare negli stessi posti, bisogna andare oltre. Io non sono la realtà della malattia. Sono fortunata. C’è chi sta peggio di me. Però, come tutti, vivo nella speranza che domani possa giungere davvero la cura definitiva.
Mi vedi così, ma prova a guardare più in là. Prova a pensare come vivo io: con una malattia dalla quale non si guarisce. Una mutazione del mio dna è ancora sconosciuta, l’altra è rara. Mi curo per quattro ore al giorno, se sto bene. Come terapia aggiuntiva, dal lunedì al venerdì vado in piscina. Anomalo, per me, sarebbe non dovermi curare. Curarsi, però, ancora non basta, perché la malattia ti colpisce alle spalle quando meno te lo aspetti. Pensi di stare bene, poi arriva il risultato delle analisi e finisci ricoverata, chiusa tra quattro mura, passando dal divano al letto, dal letto al divano, con l’ago conficcato nelle vene a guardare scendere interminabili gocce di antibiotico. Lo devi accettare. La fibrosi cistica è questa. La cosa più brutta che ci viene imposta è l’isolamento. Non puoi stare in contatto con gli altri. Puoi avere scambi solo col cellulare. Il tempo, in una stanza di ospedale, non passa mai.
La malattia non è conosciuta a sufficienza. Dobbiamo fare il possibile per renderla visibile. I portatori sani sono tanti. È paradossale che pochissimi la conoscano, rischiando di mettere al mondo un bambino malato. Se fossimo più uniti potremmo collaborare meglio e portare più acqua al mulino della ricerca. Sono i progressi della scienza a rendere le nostre vite migliori, ad allargare i nostri orizzonti. Io mi vivo la vita adesso: non mi faccio limitare. Lotto e cerco di cogliere tutto quello che offre, nel bene e nel male.
Scegliere di donare il cinque per mille alla ricerca è fare un dono di vita, il più bello.