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Matteo, un don Chisciotte tra le corsie dell’ospedale

La luce, in fine

«Ho conosciuto questa malattia tanti anni fa, senza sapere cosa fosse – dice Rita. Era l’inizio degli anni Settanta. Ho il ricordo delle bombole di ossigeno dentro la custodia di cuoio, fuori dalla porta di un cuginetto a cui ero molto affezionata. Luca era minuto e bellissimo, col caschetto rosso. Un giorno è stato male. La nostra è una famiglia molto unita. Ricordo il viavai degli zii e dei cugini e la parola mucoviscidosi che mia mamma ogni tanto pronunciava. Poi mi hanno detto che era volato in cielo». Luca muore nel 1972. Passa più di un decennio prima che la fibrosi cistica compaia di nuovo nella vita di Rita. Lo fa nella stessa linea di parentela, nei geni di un altro cugino.

«Le bombole di ossigeno mi hanno ossessionato da bambina – confida. In seguito, stando vicino a Matteo, che ha affrontato la propria condizione con grande dignità, ho capito cose che da piccola mi ruotavano intorno, ma non ero riuscita ad afferrare». Ancora, Rita si scontra prima con gli effetti indiretti della malattia che con chi la vive direttamente. Sono le lacrime di una madre. «Avevo circa vent’anni – ricorda. Matteo era stato molto molto male ed era in ospedale. Ero passata da Sandra, la sua mamma, una donna estremamente introversa, da interpretare. Stava lavorando. Quando siamo rimaste sole, le ho chiesto: “c’è qualcosa che non va?” e si è messa a piangere. Mi ha dato un biglietto con scritto: Matteo ha la fibrosi cistica. Non riusciva più a tenerselo dentro. Da allora, passavo a farmi i capelli e parlavamo della malattia».

Rita pensava a Luca e si domandava: adesso cosa accadrà a Matteo? «Assomigliava al nonno, mancato il giorno in cui lui nasceva – riflette. Aveva spesso uno sguardo severissimo, ma se ti amava ti amava. Aveva un’ironia molto particolare. Ti disarmava. Non voleva essere compatito. Se percepiva pietà ti tagliava fuori. Era un ragazzo di intelligenza e sensibilità superiori. Una persona eccezionale. Matteo mi sembrava una roccia. Mi ha insegnato il coraggio, a non avere paura. Era un don Chisciotte. Per me ha combattuto contro i mulini a vento: desiderava scegliere come gestire la propria condizione di malattia. Non voleva andare in ospedale. Si era reso conto che il suo tempo sarebbe stato breve e voleva viverlo come piaceva a lui».

Matteo era una mente molto curiosa, doveva comprendere il perché di tutte le cose. «Era assetato di conoscenza – racconta Rita. Quello che non sapeva andava a scoprirlo. Frequentava il Liceo Classico Mazzini, a Genova, una scuola dura, molto competitiva. Nessuno capiva le sue assenze, perché nessuno sapeva fosse malato. Lo teneva nascosto per essere trattato come gli altri, ma i suoi compagni di classe avevano capito che c’era qualcosa che non voleva dire. Si ricordano le cose che scriveva: erano sempre da applausi. Era adolescente, quando navigando in internet ha capito che doveva morire e ha avuto un moto di ribellione. Dopo essere stato dentro gli schemi per un sacco di tempo e avere seguito i protocolli di cura, presa consapevolezza della malattia, ha iniziato a volere decidere per se stesso. Affrontava la fibrosi cistica contrapponendocisi. Non la subiva. Continuava a sfidarla. Portava il proprio corpo e la propria resistenza al limite, per capire fino dove poteva arrivare. Lo faceva molto lucidamente, senza mai sottovalutare la malattia. Era consapevole della forza che possedeva. Non ha mai fatto niente per caso, ma se non avesse avuto Sandra, Matteo non avrebbe osato le stesse cose».

La storia di Matteo è anche quella di una madre coraggio. Rita sottolinea: «lui aveva pensato la sua vita così. Non voleva essere di esempio a nessuno e non giudicava nessuno. Era di una integrità intellettuale che ho sempre rispettato. Dava spiegazioni scientifiche alle proprie decisioni. Non si aspettava né di essere capito né che la sua potesse essere la scelta di altri. Sandra, con tutto il suo dolore, lo ha compreso e lo ha appoggiato. Lei non era incosciente. Ha accettato di lasciarlo libero. Ha pianto tante volte. Si è annullata per suo figlio, senza mai perdere dignità. Non è una persona facile, ma di una bontà esagerata. Ha fatto tanti passi indietro, distinguendo sempre cosa fosse la cosa giusta da fare da quella che umanamente sarebbe venuta da fare».

Nel maggio 2008 c’era Rita con Sandra a Verona. Aveva deciso di spendersi per la Fondazione Ricerca Fibrosi Cistica come volontaria. «Lei non parla, ma io capisco molte cose – ammette Rita. Le bastava un sostegno. L’ho accompagnata. Matteo era felicissimo che la sua mamma avesse dato quella svolta alla propria vita. Voleva che ci impegnassimo per la ricerca. Ne andava fiero e ci controllava a distanza». Più Matteo cresceva più la malattia progrediva. «Faceva giornalismo – spiega Rita. Era un intellettuale. Ponderava ogni singola parola. Con la dialettica ti distruggeva. Ha studiato a Bologna, Roma, Milano, Parigi e Bruxelles. Usciva dalla stanza di ospedale e il mondo cambiava. Faceva la valigia e non sapevi quando sarebbe tornato. Molti lo rimproveravano. In cuor mio sapevo che stava facendo del male a se stesso, ma lui voleva vivere così e doveva vivere così. All’ultimo aveva un po’ pianificato nella sua testa eventuali scenari e come sarebbe finita. Era un passo oltre». Nonostante tutto ha dovuto lottare per due mesi, gli ultimi della sua vita, per fare rispettare il principio di autonomia che consente a ogni persona la libertà di scelta sulle opzioni terapeutiche, affermando la propria dignità anche in fine.

Matteo era a casa, diceva che non voleva più andare in ospedale. Sandra chiama il 118 e la dottoressa Laura Minicucci, allora responsabile del Centro di cura FC del Gaslini. Matteo giunge in ospedale e viene trasportato d’urgenza in terapia intensiva. Ha 30 minuti di vita. Quando il responsabile della rianimazione ricompare, Matteo è già stato collegato all’ECMO (Ossigenazione Extracorporea a Membrana). «Se si stabilizza, mi organizzo per il trasporto alle Molinette per il trapianto» dice Andrea Moscatelli. È un’ora indefinita della notte in una stanzetta livida di ospedale. C’è una madre che sta perdendo un figlio e ancora riesce a cercare le parole per difenderlo. «Ma no, dottore, mio figlio non voleva il trapianto». L’adrenalina del medico, che ha coordinato un’equipe in emergenza, per strappare dalla morte Matteo, viene assorbita dall’aria immobile del limbo in cui finisce la vita che si impiglia nelle macchine. «Signori, io chiamo il giudice» dice senza ascoltare. Il giorno successivo, il papà e la dottoressa Minicucci confermano che la volontà di Matteo era quella riportata dalla madre, ma è tardi.

«Quando sei lì provi tutto – ammette Rita, al fianco di Sandra in quelle ore. Conoscendo Matteo, mi sentivo male. Quando un figlio ti dice basta, da genitore vivi un dramma, ma chi è malato lo vive più grande. Il mese e mezzo che abbiamo passato in una rianimazione piena di bambini, nonostante Matteo avesse 32 anni, mi ha segnato per la vita. È stato in ECMO per due settimane. Quando si è risvegliato tracheotomizzato era incazzato nero. È resistito, per fare capire a tutto il personale medico la sua volontà. Ha mantenuto la lucidità fino alla fine. Sono stata una delle poche persone ad andare da lui – racconta Rita. Mi accettava perché sorridevo molto. Era arrabbiato per il modo in cui la malattia aveva la meglio. Non sopportava l’oltraggio che il corpo subiva – ricorda Rita. Anche per me era accanimento. Il rumore della macchina per fare la fisioterapia polmonare ti dà in testa, ma non abbiamo potuto avere un attimo di cedimento. Vigile, con quegli occhi che ti seguivano, voleva controllare le terapie. Aveva detto che non voleva essere trapiantato. Guai a parlare sottovoce. Non si arrendeva Matteo. Non c’erano finestre in terapia intensiva. Ammattiva. Lo hanno trasferito in reparto, dove poteva vedere il cielo, ma dopo nemmeno una settima è tornato in rianimazione, dove gli avevano ricavato una stanzetta con finestra. Ci è stato consentito di restare con lui giorno e notte. Non esistevano limitazioni di orario per noi». Due cose avrebbe voluto Matteo: essere lasciato andare e la luce naturale. Quando è stato trasferito in una struttura dell’Associazione Gigi Ghirotti, in una stanza molto luminosa, con un terrazzo, ha trovato tranquillità e in un paio di giorni se n’è andato.

«Ha deciso quando era ora di smettere – dice Rita. Lo ha fatto quando le persone che aveva intorno avevano capito il senso delle sue scelte. Il respiro di Luca e di Matteo mi sono rimasti nelle orecchie per un sacco di tempo. Gli occhi di mia madre li vedo spesso in Sandra, anche se lei li ha scuri e mia madre li aveva verdi. L’espressione nel suo sguardo è la stessa di quella di mia madre quando ha perso mio fratello». Sandra non ha mai smesso di sostenere la ricerca. A distanza di sei anni dai fatti raccontati continua a battersi per sottrarre la fibrosi cistica dall’anonimato e assicurare alle generazioni future una prospettiva nuova, diversa, da quella in cui è cresciuto Matteo.

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