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A che punto è la terapia fagica

Dietro il microscopio

Anna Pistocchi è una biologa. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Biologia Molecolare e Cellulare ed è professoressa associata in Biologia Applicata presso il Dipartimento di Biotecnologie Mediche e Medicina Traslazionale dell’Università degli Studi di Milano. Dal 2017 fa parte della rete dei ricercatori di FFC Ricerca.
Il principale obiettivo dei suoi studi per FFC Ricerca è approfondire la possibilità di usare i batteriofagi (o fagi) in alternativa ai trattamenti antibiotici per combattere le infezioni batteriche in fibrosi cistica (FC). Per le sue ricerche usa il pesce zebra, o zebrafish, un organismo modello in cui è molto semplice analizzare l’azione dei fagi e la risposta infiammatoria. L’attuale progetto del quale lei è responsabile è il FFC#12/2022.

Cerchiamo subito di contestualizzare l’ambito di ricerca e renderlo masticabile per chi non si occupa di scienza. Cosa sono i fagi?

I batteriofagi, o fagi, sono virus che infettano e uccidono esclusivamente i batteri, mai le cellule umane. Inoltre, essendo specifici nella loro azione, possono colpire solo alcuni batteri evitando, per esempio, la distruzione dei batteri intestinali. L’obiettivo della terapia fagica è offrire una valida alternativa agli antibiotici sia per le persone con fibrosi cistica, per le quali il problema dell’antibiotico-resistenza è un’urgenza, sia per tutti coloro che vengono in contatto con batteri sempre più resistenti. L’Italia, per esempio, è stata classificata come una delle nazioni con il più alto numero di infezioni da batteri resistenti alla terapia antibiotica e l’Organizzazione Mondiale della sanità ha recentemente pubblicato un saggio in cui afferma che la principale causa di morte nel 2050 sarà dovuta proprio alle infezioni batteriche antibiotico-resistenti*. Anche nei confronti dei fagi i batteri potrebbero sviluppare una resistenza: però, essendo in grado di evolvere, potrebbero mutare riacquisendo efficacia nel distruggere i batteri.

I fagi sono virus, dunque si possono trovare in natura. In che tipo di ambiente vivono?

Ovunque. Basta trovare dei batteri e ci saranno anche i fagi. I fagi che ora usiamo in laboratorio sono i discendenti di quelli prelevati dalle acque reflue dell’ospedale di Peschiera Borromeo (MI) qualche anno fa.

Come è approdata a questo ambito di ricerca?

Io sono figlia d’arte. Mia mamma, la dott.ssa Daniela Ghisotti, che oggi è in pensione, è stata ricercatrice e professoressa di Genetica all’Università degli studi di Milano. Nel 2015 è stata responsabile del progetto FFC#17/2015, Terapia fagica per combattere le infezioni da Pseudomonas aeruginosa in pazienti con fibrosi cistica.
Nel 2017 le ho proposto di usare un modello di FC di zebrafish per testare la terapia fagica. Così ho scritto e presentato il progetto di ricerca FFC#22/2017, Uso del pesce Zebrafish come nuovo modello di FC per confermare in vivo la terapia fagica contro le infezioni da Pseudomonas aeruginosa. Sono molto legata a questo progetto perché è stato, rispettivamente per mia mamma e me, l’ultimo e il primo finanziato da Fondazione.

Ora è a capo di un gruppo di ricerca: cosa significa essere un punto di riferimento in laboratorio?

Io vivo il laboratorio come se fosse una via di mezzo tra una una classe di compagni di scuola e una famiglia. Sono molto fortunata perché

Con Marco Cafora

alcuni dei miei colleghi sono con me dalla tesi e, col tempo, ci siamo abituati a una genuina e talvolta goliardica collaborazione. Condividiamo le gioie, come la pubblicazione di un articolo o la vincita di un finanziamento, e se c’è un problema tutti ci sentiamo chiamati a dare una mano. Tra gli ultimi traguardi festeggiati insieme c’è anche quello di Marco Cafora, che nel 2023 ha vinto la Gianni Mastella Research Fellowship e che proprio in questi mesi, anche grazie al finanziamento di Fondazione, sta facendo il suo periodo di training presso l’Università di Warwik (Regno Unito). Secondo me la chiave per un ambiente lavorativo sereno è trovare un sano equilibrio con il mondo esterno: amiamo da matti fare scienza, ma non trascuriamo la vita privata fuori dal laboratorio. Questo è il punto: non ci sentiamo obbligati a stare dietro il microscopio, a fare ricerca, è che proprio ci piace! Ci sono dei periodi intensi in cui ci capita di lavorare fino a notte fonda, ma nessuno ne fa una tragedia. La gestione è molto matura, ognuno sente la responsabilità del camice che indossa e alla fine della giornata lavorativa risponde prima di tutto a se stesso. Io, oltre a fare ricerca, insegno. E ai miei studenti dico sempre che la vita in laboratorio è come la vita in cucina: ci deve essere programmazione, preparazione, attenzione, cura, certo, ma senza estro e passione il risultato non arriva. Diventerebbe un lavoro totalmente delegabile ai robot. Invece ci vuole… sentimento. Credo che questo sia l’insegnamento più grande che mi ha lasciato il prof. Mastella: lui ha sempre creduto in maniera sconsiderata nella ricerca, nella medicina, perché sono attività prettamente umane che riescono solamente quando lo studio, la tecnica, il progresso incontrano l’amore per ciò che si fa.

Con questo ultimo progetto è con Fondazione da 8 anni: chi meglio di lei può raccontare cosa vuol dire essere un ricercatore FFC Ricerca.

Con un gruppo di volontari durante la Campagna Nazionale

Ho avuto la fortuna, durante la mia carriera scientifica, di essere stata finanziata da enti scientifici differenti e in Fondazione ho trovato da subito un senso di appartenenza. Noi ricercatori finanziati abbiamo ben chiaro da chi provengono i soldi e il perché ultimo del nostro lavoro: sentiamo il senso di fiducia che le persone con FC, le loro famiglie, i volontari, i sostenitori, riversano su di noi. In Fondazione si può lavorare in un contesto professionale stimolante, in cui parlare di e fare scienza senza competizione e scontri, perché

I traguardi si festeggiano insieme

viene promossa la collaborazione tra i team di lavoro e in tutti è vivo il desiderio di arrivare insieme all’obiettivo comune. Da un punto di vista meramente pratico, ma molto importante, va aggiunto che la gestione economica del progetto è estremamente agevolata dalla disponibilità e dalla professionalità dell’area amministrativa della Fondazione. Io sono una scienziata, non ho studiato economia, e non è sempre facile rendicontare i costi dei progetti (spese di laboratorio, trasporto, personale, materiale…). Il ricercatore che lavora con Fondazione è supportato e sgravato da questo compito: le energie possono essere così convogliate verso l’attività di ricerca.

Quali sono gli obiettivi a breve termine del progetto attuale, il #12/2022, Valutazione delle interazioni tra i batteriofagi e il sistema immunitario dell’ospite in modelli di fibrosi cistica: un passo verso l’applicazione della terapia fagica?

Nei progetti precedenti avevamo analizzato l’efficienza dei fagi nell’eliminare i batteri, mentre in questo progetto stiamo verificando la sicurezza dei fagi per l’uomo. In particolare esaminiamo cosa succede quando i fagi vengono a contatto con le cellule umane, come quelle polmonari, per capire se scatenano reazioni avverse. Per il momento, i nostri risultati ci tranquillizzano: i fagi sembrano davvero sicuri ed efficienti.

Nel suo laboratorio usa il pesce zebra. Il modello animale è davvero insostituibile?

Per il momento sì. In Italia la ricerca sugli animali è possibile, ma è severamente regolamentata e strettamente controllata: il benessere animale è tutelato a 360 gradi. Da una parte è giusto perseguire la “regola delle 3 R”, ovvero rimpiazzare, ridurre, ridefinire, lavorando per riuscire sempre di più a far a meno del modello animale. In questo senso noi spesso usiamo come alternativa linee cellulari di epitelio bronchiale con o senza mutazione F508del. D’altra parte va detto che oggi il modello animale resta unico e indispensabile. Lo zebrasifh è un piccolo pesce molto usato nella ricerca scientifica per tutta una serie di vantaggi. Nel caso degli studi in fibrosi cistica, per esempio, si può seguire in tempo reale e a basso costo l’azione di molte sostanze antibatteriche e antinfiammatorie, e testare farmaci, come il Kaftrio. In più ha è un animale con uno sviluppo molto veloce e in cinque giorni è possibile raccogliere i dati sui meccanismi di interesse, come l’infiammazione o la risposta a un farmaco. I risultati che abbiamo finora raggiunto grazie agli studi su zebrafish mostrano che i fagi hanno un’azione antinfiammatoria, e ciò avviene anche in cellule umane FC con mutazione F508del su CFTR. Come si capisce, il lavoro del ricercatore è un lavoro di squadra e va precisato che il nostro gruppo di ricerca collabora strettamente sia con il laboratorio di Massimo Aureli, del mio stesso dipartimento, sia con quello di Federica Briani e Francesca Forti del Dipartimento di Bioscienze dell’Università degli Studi di Milano, molto esperto nella ricerca e produzione dei fagi.

Quanto manca alla fase clinica?

Mi viene da sorridere se penso che già alla seconda Convention dei ricercatori di FFC Ricerca alla quale partecipai, era il 2018, il prof. Mastella venne da me e mi chiese: “Allora, quando li portiamo in clinica questi fagi? Perché qui non c’è tempo”. Siamo ora giunti a uno stadio avanzato della fase preclinica. Da una parte c’è molto entusiasmo perché le potenzialità della terapia fagica sono ormai un dato di fatto, dall’altro anche un po’ di timore, il timore che porta con sé ogni attività pionieristica. Sentiamo la responsabilità della relazione ricercatore-paziente e al contempo temiamo possibili imprevisti che spesso accadono durante i primi tentativi.
A livello normativo attualmente in Italia c’è un grande vuoto circa l’uso dei fagi, ma siamo in attesa che enti regolatori come EMA (Agenzia Europa per i Medicinali), diano le necessarie indicazioni circa la loro produzione per l’uso clinico. Al momento sono ammessi solo per uso veterinario.

Qual è la situazione a livello internazionale, invece?

Il mondo occidentale ha un approccio molto cauto nei confronti della terapia fagica perché ancora poco conosciuta. Nei Paesi dell’Est Europa, invece, viene comunemente usata anche nell’uomo per il trattamento di infezioni batteriche; anche gli Stati Uniti si stanno aprendo all’uso dei fagi in clinica. Jon Koff dell’Università di Yale – Center for phage biology and therapy, con il quale sono in contatto, ha già portato in clinica la terapia fagica, all’interno di un programma di farmaci in uso compassionevole in fibrosi cistica. La condizione di una persona con FC, a causa delle infiammazioni croniche, concede al clinico il tempo di selezionare con cura il fago giusto, sulla base del tipo di batteri presenti nel malato. Sempre uno studio condotto all’interno dell’Università di Yale ha dimostrato, inoltre, che la somministrazione della terapia fagica in malati FC con antibiotico-resistenza può rendere i batteri non uccisi dai fagi nuovamente sensibili agli antibiotici. C’è ancora molto di inesplorato e potenzialmente rivoluzionario nella terapia fagica.


*Antimicrobial Resistance Collaborators. (2022). Global burden of bacterial antimicrobial resistance in 2019: a systematic analysis. The Lancet; 399(10325): P629-655. DOI: https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(21)02724-0/fulltext

Drug-Resistant Infections: A Threat to Our Economic future (March 2027) https://www.worldbank.org/en/topic/health/publication/drug-resistant-infections-a-threat-to-our-economic-future

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