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28 Dicembre 2012

Si può imporre di far conoscere ai parenti la propria condizione di portatore di un tratto genetico patologico?

Autore: Laura
Domanda

Buongiorno, sono mamma di un bimbo di otto mesi affetto da FC. Fino al momento della diagnosi io e il mio compagno non avevamo la minima idea di essere portatori sani di questa malattia ma dopo abbiamo scoperto che nella sua famiglia c’era già stato un caso di cui nessuno si era mai preoccupato di avvisarlo. A parte il dispiacere e lo sdegno per quello che è successo, noi abbiamo anche tantissima rabbia nei confronti di questi parenti menefreghisti e vogliamo anche capire perchè non esista una legge che imponga a chi è a conoscenza di essere portatore di malattie genetiche di informare tutti i componenti della famiglia e un’altra cosa, secondo noi illogica, è che il test per i parenti di malati sia gratuito solo nel caso in cui il parente sia in età fertile, sarebbe più logico che dopo che un bambino viene riconosciuto come malato l’indagine genetica venisse eseguita oltre che sui genitori anche sui nonni in modo che si capisca da che ramo della famiglia si è ereditato il gene difettoso e quindi in modo di poter avvisare quante più persone possibile imparentate! Oggi, con i social network non dovrebbe essere difficile trovare anche parenti lontani che magari di persona non si conoscono, tantissime persone potrebbero essere avvisate! Perchè nessuno si muove per rendere l’informazione obbligatoria?

Risposta

Non c’è legge che imponga a nessuno in alcuna circostanza di far conoscere informazioni riguardanti il proprio patrimonio genetico. Anzi, le norme esistenti in questo campo sono tutte rivolte a tutelare il fatto che solo il diretto interessato possa disporre di queste informazioni: per esempio il laboratorio che esegue il test può dare la risposta solo a chi vi si è sottoposto ( e non ai suoi parenti ed al limite anche al medico curante se non autorizzato); per sottoporsi al test è necessario essere maggiorenni ed essere in grado di volere e intendere, quindi anche comprendere il risultato del test. Tutto questo perché la legislazione si è preoccupata soprattutto di impedire che i test genetici siano strumentalizzati allo scopo di discriminare gli individui in base alle loro caratteristiche genetiche. Il problema ha preso l’avvio ancora qualche decennio fa negli Stati Uniti, dove le compagnie assicurative (a cui, in mancanza di un regime pubblico di previdenza, il cittadino si rivolge per avere un’assicurazione privata in caso di malattia) pretendevano di avere accesso alle banche dati dei test genetici; e poi di stabilire la possibilità dell’accordo assicurativo in base alla conoscenza del risultato dei test. Tra questi test ve ne sono alcuni che possono suggerire la suscettibilità dell’individuo a tumori, malattie degenerative gravi e altro. Ecco che, sapendo che quel soggetto aveva maggior rischio per una certa condizione, la compagnia si rifiutava o faceva pagare un prezzo più alto per l’assicurazione. Come pure grandi aziende in cerca di collaboratori pensavano allo stesso modo di venire a conoscenza di altri risultati (es: predisposizione ad infarto o altri accidenti aterovascolari) e stabilire in base a questi se assumere o no chi cercava un impiego. Allora i legislatori sono corsi ai ripari e ne è nata quella politica di rispetto della famosa “privacy” (come concetto generale), nella quale rientrano a pieno titolo i test genetici, che riguardano ciò che di più personale e privato un individuo possiede e cioè il suo DNA.

Non c’è una legge del codice civile che lo imponga, ma è assoluto dovere dei medici che diagnosticano una malattia genetica a carattere ereditario informare diffusamente gli interessati su tutte le implicazioni della diagnosi, tra le quali c’è il rischio genetico per i parenti. Spetta a questi medici far crescere una cultura che ponga fine alla visione della malattia genetica come “tara familiare” da passare sotto silenzio, diffondere consapevolezza della assoluta casualità che l’ha determinata, promuovere capacità di parlarne stimolando il senso di responsabilità nei confronti degli altri membri della famiglia. Nel caso della fibrosi cistica spetta prima di tutto al medico del centro specializzato che fa la diagnosi e prende in carico il bambino e poi al medico “di famiglia” (pediatra di base o medico curante dei genitori, informato dai medici del centro su autorizzazione dei genitori o del malato, se maggiorenne) farsi carico di promuovere l’utilizzo del test per il portatore fra i parenti del malato, invitando i genitori ad informarli. “Informare del rischio genetico familiare” non ha niente a che vedere con le decisioni che in seguito al risultato del test la coppia può prendere; su questo non vi debbono essere malintesi: sono sempre gli interessati che decidono delle proprie scelte. Potrebbero anche decidere che non vogliono fare il test, è un loro diritto. Ma un conto è decidere di non farlo sapendo che potrebbero farlo, e un conto è essere all’oscuro di tutto perché nessuno ne ha parlato. Perché in questo caso “dispiacere e sdegno” da parte di chi non è stato informato sono sentimenti legittimi.

Infine, per quel che riguarda l’opportunità/necessità di fare il test per il portatore ai nonni: sul piano concettuale è un discorso corretto perché, come giustamente sottolinea chi scrive, “in questo modo si capisce da quale parte della famiglia viene il gene difettoso”. E in effetti le prime esperienze di “screening a cascata ” (così viene chiamato lo screening del portatore promosso nell’ambito dei parenti a partire dal caso del malato) (1) hanno applicato questa strategia. Però bisogna sapere che i nonni sono meno disponibili dei parenti più giovani a sottoporsi al test: le condizioni di salute, la difficoltà di essere autonomi negli spostamenti, la distanza spaziale o affettiva, sono tutte ragioni d’ostacolo. Per cui all’atto pratico in molte esperienze, compresa quello del progetto pilota di screening a cascata condotto nella regione Veneto negli anni 90 (2), è stata scelta la strategia di puntare su individui più giovani e più disponibili a fare il test. Non ci sono ricerche che confrontano il successo dell’una o dell’altra strategia; l’esperienza ha insegnato che quello che sicuramente è importante è l’atteggiamento “attivo” da parte del centro FC e dei suoi medici nel promuovere l’informazione e invitare i genitori a informare i parenti. E, sempre in base all’esperienza, abbiamo visto che questi parenti, quando informati, vengono a fare il test soprattutto se sono in età da avere figli, altrimenti non vengono, perché il rischio genetico è percepito come qualcosa di molto astratto e ancora lontano da ricadute pratiche (2).

1) Super M, Schwarz MJ, Malone G, Roberts T, Haworth A, Dermody G. Active cascade testing for carriers of cystic fibrosis gene. BMJ. 1994 Jun 4;308(6942):1462-7

2) Borgo G, Castellani C, Bonizzato A, Mastella G. “Carrier testing program in a high risk cystic fibrosis population from northeastern Italy. Active recruitment of relatives via probands’ parents. Community Genet 1999;2(2-3):82-90

G. Borgo


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